02 febbraio 2008

Into the wild

Ho visto il film di Sean Penn una settimana fa, e continuo a rimasticarmelo in testa. Le inquadrature finali, soprattutto.

Il film è meraviglioso, una delle cose più belle viste di recente - e la storia è vera, raccontata sulla base di un libro che negli Stati Uniti è un cult da tanti anni.
(Se non sapete come finisce, smettete di leggere oppure non mi rimproverate se poi parlo del finale).


La cosa che non mi torna è il dibattito che ho in testa, tra romanticheria (post)adolescenziale, e sacrificio della propria vita per qualcosa in cui si crede. Che poi, non è detto siano cose così diverse.

Diceva il poeta, per delicatezza ho perduto la mia vita.
Eccoci, siamo qui.


Pensare di sopravvivere in Alaska con mezzo sacco di riso, senza una mappa e l'equipaggiamento giusto, per chi ha provato anche poco (come me...) a fare su e giù per i monti, è un'idiozia. Lo dicono anche gli abitanti del posto, già molto incazzati per i mille ragazzi circa (e adesso aumenteranno a dismisura...) che ogni anno vanno in pellegrinaggio fino al bus / rifugio di caccia dove Chris McCandless, il protagonista vero della storia, è morto per denutrizione, a 15 miglia da un'autostrada, e soprattutto a poca strada da una cremagliera che lo avrebbe potuto portare facilmente dall'altra parte del fiume gonfiato dal disgelo, nel momento in cui aveva deciso di tornare e non ci è più riuscito.


La gente che nella natura ci vive, non potrà mai accettare queste cose.

Però invece a noialtri che abbiamo assaggiato il vagabondaggio, abbiamo alzato il pollice e macinato chilometri con lo zaino, una storia come quella di Chris McCandless ci chiama a piena voce. E chiede conto di tutto quello che ci siamo rigirati in testa, durante tutta quella strada.

E' la storia di Francesco, che lascia ogni cosa e va a vivere coperto di sacco nelle macerie di San Damiano. E' Walden, andai nei boschi eccetera eccetera - sempre quello dell'Attimo fuggente. E' la voglia di essere niente, di "chiamare le cose col loro nome" come ci ripete il protagonista della vicenda, è il fatto di scoprirsi una docile fibra dell'universo.










Ci riesce solo la poesia, ad avvicinarsi al senso di questa maniera di vivere. E la poesia fa a pugni col buon senso, in un modo doloroso e instancabile, da sempre.

Il rimpianto è solo quello di non poter sapere cosa sarebbe successo nella vita di Chris, se fosse riuscito a tornare. O forse, così sarebbe stata solo una storia come tante?



1 commento:

Anonimo ha detto...

Che film strano!! Anch'io viaggio un po' e - come dici tu - questo film ha colpito anche me.

Milioni di persone hanno viaggiato, dai famosi anni ‘60 ad oggi. Viaggiare è aprire la mente.

Con tutti i milioni di persone che hanno viaggiato e che sono tornati a casa più saggi, con tutti gli incontri fenomenali e le impensabili avventure che l’alchimia umana può creare, con tutte le porte che si sono aperte, con tutte le esperienze inimmaginibili che sono state provate, l’oriente, la contestazione, San Francisco, le comuni hippie, Kerouac e mille altri, con tutto sto strapopo’ di materiale
HANNO SCELTO
l’unica storia dell’unico minchione che è andato a morire di stenti in culo al mondo sotto atroci sofferenze!!

Dico, ma come cazzo si fa a partire per l’Alaska senza cartina?! cazzo ti porti il fucile e non ti porti una cartina!! no, perchè DOVETE saperlo.. a 10 miglia dal posto in cui è morto c’era UN’AUTOSTRADA!! e leggo su internet che c’era anche un passaggio sul fiume a poche miglia, un parco nazionale (con tanto di guardia forestale) e chi l’ha trovato sono stati i cacciatori perchè 2 settimane dopo la sua morte si è aperta la stagione di caccia!!

mah..

bel blog! ciao!!
Attilio